Parenti delle mascletás valenciane (Spagna), le “batterie”, note anche col nome di “fuochi”, sono sequenze di esplosioni di diversa intensità (quelle notturne, coloratissime, sono dette – piuttosto impropriamente – alla bolognese): aprono lo spettacolo le “rotelle”, isolati giochi di luce e rumore; segue la “batteria” propriamente detta, una lunga miccia che, bruciando, fa esplodere botti in ritmica successione (a una serie di colpi ordinari corrisponde uno scoppio più forte, la “risposta”, e ogni tre risposte deflagra la “quinta”, un botto più violento, detto anche “rispostone” o “calcasso”), intervallata da bengala, mortaretti, fontane, “strappi” (colpi simultanei), accelerazioni delle risposte e squassanti frenate con cadenzate esplosioni di quinta, il tutto in crescendo verso l’ultima sezione del fuoco, il “finale” (o “scappata”), velocissimo e fortemente ritmato, che aumenta (anche coll’incendio sincrono di micce parallele) fino all’ultima grande detonazione.
L’esorcizzante culto dello scoppio delle batterie, tuttora in uso in diversi comuni pugliesi (e non solo), caratterizza le feste sanseveresi almeno dall’età barocca. La prima testimonianza del fenomeno è un documento del 1707, in cui spicca l’invito rivolto dal clero parrocchiale di San Severino alla congregazione dei Morti al fine di «sollennizzare la festa di essa Santissima Pietà nell’ultima Domenica di Maggio […] co’ ogni pompa possibile per maggior’ aumento, e devotione di essa Santissima Vergine, con sparatorii». Il riferimento all’impiego di sparatorii in occasione della ricorrenza religiosa, raccomandato dallo stesso clero al fine di aumentare la pompa festiva e contemporaneamente sollecitare il sentimento devoto, non è enfatizzato o rimarcato da tratti di straordinarietà, e ciò non può che significare che l’incendio di rumorose batterie durante i festeggiamenti sacri è, nel 1707, una pratica usuale, tradizionale e radicata, indubbiamente in uso già nella seconda metà del Seicento.

Un primo esplicito riferimento documentario all’incendio di batterie nel corso di una processione è del 1748; in quell’anno diversi sacerdoti ottengono, dopo una lunga causa, l’ammissione nei capitoli parrocchiali come “partecipanti”: la festosa processione d’insediamento nelle arcipreture, cui prendono parte anche il vescovo e il civico governo al completo, è seguita da «moltissimo Popolo, che andava sparando per li vichi molte botte, oltre le batterie di cinque mile e tre mile botte avante le rispettive Chiese». Anche in questo caso si scrive di queste esplosioni come di elemento nient’affatto eccezionale, del tutto consueto, e si deduce anche che il loro incendio durante i sacri cortei è cosa comune, in uso da lungo tempo; s’accenna inoltre alla distinzione (allora certamente abituale) tra batterie da cinquemila e batterie da tremila botti, di durata evidentemente diversa, e ciò significa che la produzione di questi artifici è già, a metà del Settecento, piuttosto elaborata, e non semplice e rudimentale.

Col tempo le batterie sono diventate sempre più l’insostituibile colonna sonora delle feste sanseveresi (e, in particolare, della festa patronale), un galvanizzante concerto di fuoco che, dalla prima metà del Novecento, si è arricchito di un ulteriore e precipuo elemento spettacolare: è all’incirca un secolo, infatti, che durante l’incendio delle batterie un numero sempre maggiore di fujenti corrono appresso il fuoco. Sfidando le scintille e la carta infocata, inseguiti dalle deflagrazioni sempre più forti e veloci sino al finale, essi danno vita a una spettacolare e adrenalinica corsa collettiva, una dionisiaca fuga dalla morte e dal dolore che, nel rullo ancestrale degli scoppi e sotto lo sguardo dei santi patroni e protettori, è tutta un inno alla più autentica gioia di vivere.

Nella seconda metà del Novecento, in più di un’occasione si è tentato – da parte sia dell’autorità civile sia di quella religiosa – di cancellare la tradizione della batterie o, quantomeno, di ridurne la potenza. Superate a furor di popolo le emergenze del 1968, del 1986, del 1989 e del 1990, nel 2002 il locale commissariato di Polizia intese applicare con estrema durezza una circolare ministeriale sulla sicurezza pubblicata il 22 gennaio 2001. La protesta non si fece attendere, e la domenica della festa patronale un gruppo di cittadini insorse bloccando la processione e costringendola a un indecoroso rientro anticipato. In quell’occasione venne aggredito verbalmente l’allora Vescovo di San Severo. Un comitato si fece dunque carico di salvare la tradizione, ottenendo apposita delibera dalla Commissione consultiva centrale del Ministero dell’Interno (11/03E del 29 aprile 2003), che diede parere favorevole alla “non” classificazione delle batterie sanseveresi tra i manufatti esplodenti, definendole “serie di colpetti a salve per impiego da strada tipica di San Severo” (ovvero “colpetti a salve alla sanseverese”).
Fonte: Wikipedia